domenica 12 febbraio 2012

L'albero della pioggia.

- Questa cosa non è mai successa.
- Quale cosa?
- Santiddio Mario, come quale cosa?
- Ti riferisci...
- Sì mi riferisco.
- Va bene. Non è mai successo niente allora. Giusto?
Silenzio. Mario passò il peso da una gamba all'altra. Con la testa pensò alle ultime due settimane. Matematica. La gita scolastica. La gonna di Viola che saliva e lui che s'accomodava tra le gambe magre. Il piccolo strappo del cuore. Sentì rumore di piatti in cucina.
- Mario.
- Dimmi. Scusa. Ero distratto.
- Quindi come facciamo.
- Come facciamo... a fare... che cosa, esattamente?
- Da domani dico, come facciamo da domani!
- Domani... niente. Domani facciamo che non è successo niente. No?
- Ma dimmi almeno se ti dispiace, dimmi qualcosa...
- Stai piangendo?
- No... cristo no! non sto piangendo! Mario io non so come fare con te, lo capisci?
Mario staccò il cellulare dall'orecchio e se lo portò in grembo. Lo guardò. Lo schermo nero ridusse l'intensità della luce. Lentamente. Viola non la sentiva più. Sentiva solo l'acuto della sua voce. Con il polpastrello toccò l'area rossa e il cellulare si spense. Lo ripose sulla stretta scrivania. Girò lo sguardo e vide il fratello che dormiva sul letto, con un braccio abbandonato che penzolava. Come morto. Tra poco il padre avrebbe chiamato per la cena.

La mattina dopo si svegliò che aveva gli occhi tutti incollati e la bocca impastata. Aveva il torcicollo. Spense la sveglia.  Suo fratello era già uscito. Anche suo padre. Come sempre. Si trascinò in bagno e poi in cucina. Premette il pulsante della macchina del caffè, che iniziò a ronzare e sobbalzare. Alzò gli occhi alla finestra: fuori pioveva. Tornò in camera e frugò nel primo cassetto. Tirò fuori un mozzicone. Lo accese. La marijuana lo fece sentire subito meglio, il male al collo sparì, come la nausea.  Ma mentre tornava verso la cucina si sentì malato e i sensi di colpa gli morsero la carne e gli parve di essere come l'ammutinato frustato all'albero maestro. Scosse la testa per scacciare tutto e non pensare a niente. Tornò in cucina e ingoiò il caffè. Diede un'altra boccata dal mozzicone, poi lo spense nel lavello, dove ripose la tazzina del caffè. Indossò il giaccone e prese lo zaino con i libri. Controllò di avere il cellulare e si chiuse la porta di casa alle spalle.

Sull'autobus pieno trovò un angolo attaccato al finestrino appannato, ma presto si trovò schiacciato dai passeggeri. Fece un mezzo sorriso a un paio di compagni di scuola che erano sdraiati sui sedili e che ridevano con gli auricolari nelle orecchie.  Quei due salivano molto prima, venivano da fuori. L'aria era calda e viziata ma non spiacevole, non per lui. Si addormentò anche qualche secondo, o almeno così gli parve. Scese alla fermata che erano le otto. S'incamminò sotto l'acqua. Dietro di lui qualche altro studente, sullo stesso marciapiede o su quello di fronte, delle figure curve, dei profili neri di pioggia. Davanti a lui altri ancora. Si chiese che materie avesse e che cosa avrebbe dovuto presentare, ma non seppe darsi una risposta. Si fermò davanti al portone della scuola e tirò fuori il pacchetto di sigarette. Se ne accese una riparandosi sotto il cornicione sporgente prima del portone. Lasciò andare una boccata e poi si accorse di Viola. La ragazza si fermò di fronte a lui e lasciò andare lo zaino in terra, in mezzo al fango. Aveva gli occhi rossi e i capelli appiccicati alla fronte.
- Viola...
La ragazza si tirò sù la manica del giubbotto, scoprendo l'avambraccio. La vide che frugava nella tasca dei pantaloni. Viola tirò fuori una cosa piccola che sapeva di metallo e con quella passò due o tre volte sul polso e il sangue iniziò a zampillare a fiotti sottili.
- Vediamo se adesso fai finta di niente figlio di puttana.
Mario rimase a fissare il polso bianco della ragazza e poi si guardò il petto pieno di sangue e poi vide il rivolo che spariva lungo le dita di lei, sul cemento, dilavato, nella piazzola lurida dell'albero di fronte.

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