Ovvero quando Varsa riconosce che la realtà non ha più senso.
State bene.
mercoledì 18 maggio 2011
sabato 14 maggio 2011
Confessioni
"E quando mi fu strappata dal fianco la donna con la quale ero solito andare a letto, dovettero tagliare via il pezzo di cuore che le era attaccato, e la ferita sanguinò molto. Se ne tornò in Africa, facendo voto a te di non conoscere mai altro uomo, e lasciando con me il figlio naturale che da lei avevo avuto."
Agostino, Confessioni, traduzione (e commento): Roberta De Monticelli.
Agostino, Confessioni, traduzione (e commento): Roberta De Monticelli.
venerdì 6 maggio 2011
Lemon Twist and Olives: Cheers
Lemon Twist and Olives: Cheers: "Inauguro oggi il mio blog. Perché ho creato un blog? Non saprei, al momento. Forse sono quelle cose che si scoprono man mano che si scrive. ..."
mercoledì 4 maggio 2011
A freddo.
Osama Bin Laden è stato ammazzato. Reparti speciali USA sono irrotti nella dimora in cui si nascondeva, in Pakistan, e hanno "neutralizzato l'obiettivo". Bin Laden era importante ormai quasi solo a livello simbolico. Operativamente, a quanto sembra, non era più così importante per l'organizzazione. Difficile capire se Bin Laden sia stato ucciso a sangue freddo o se la sua reazione violenta abbia determinato la sua uccisione. Ma la differenza tra le due cose è sostanziale. Molti hanno esultato. Molti altri si sono affrettati ad affermare che sarebbe stato meglio prenderlo vivo, ma non per una qualche ragione morale (si poteva torturarlo un po' a Guantanamo per esempio, oppure tenerlo come ostaggio, o magari bruciarlo sulla sedia elettrica).
Altri, pochi (e in qualche caso autorevoli) hanno detto che non c'è alcuna ragione per gioire dell'uccisione di qualcuno, sia pure "lo sceicco del terrore".
Tra coloro che si dimostrano felici, o che addirittura esultano perchè "giustizia è fatta", c'è la diffusa convinzione che gli assetti morali debbano cadere se non si dimostrano funzionali a un qualche obiettivo. Inoltre gira voce che nel momento in cui l'interlocutore di turno (in questo caso i Qaedisti) non possiede lo stesso subset di valori morali, risulti del tutto inutile esercitarli, in quanto, in qualche modo, ritenuti controproducenti.
I valori morali in definitiva, sono utilizzati quando si può (i disputanti li condividono) o quando non sono d'impaccio al raggiungimento di un obiettivo. In altre parole, nello scenario ipotetico in cui si combatta tra i selvaggi non è considerato im-morale diventare a nostra volta dei selvaggi o ancora: nel momento in cui un comportamento etico rendesse faticoso o addirittura impossibile raggiungere un obiettivo, meglio rinunciarvi e modificare di conseguenza il proprio comportamento. Purtroppo, la rinuncia ai propri valori è più drammatica di quanto non sembri a prima vista. Il rispetto di questi infatti, nelle rispettive esistenze, serve più a noi che agli altri. Arrestare Bin Laden, assicurargli un giusto e pubblico processo e procedere con la pena qualora fosse stato giudicato colpevole, avrebbe giovato più a noi che a lui. Avrebbe innalzato l'Occidente delle Democrazie a un livello di popolarità mai raggiunto in precedenza. Avrebbe spazzato via la convinzione che siamo Paesi, appunto, avviati verso un completo declino di valori morali, primo giudizio che infiamma le piazze arabe e musulmane. In altre parole avremmo affiancato alla potenza militare e tecnologica, quella morale, che è un'arma ben più selettiva e intelligente di tante bombe o missili.
Dopo lo scandalo dell'impiccagione di Saddam, l'esecuzione di Bin Laden (se si dimostrasse vera) è l'ennessima occasione persa dall'Occidente. E mentre i fautori della "doppia morale", moralmente alleati dei Qaedisti, già s'infiammano a dimostrare che Guantanamo è stata utile, occorre ripetere con forza, oggi più di ieri, che non siamo affatto un mondo migliore.
State bene.
Altri, pochi (e in qualche caso autorevoli) hanno detto che non c'è alcuna ragione per gioire dell'uccisione di qualcuno, sia pure "lo sceicco del terrore".
Tra coloro che si dimostrano felici, o che addirittura esultano perchè "giustizia è fatta", c'è la diffusa convinzione che gli assetti morali debbano cadere se non si dimostrano funzionali a un qualche obiettivo. Inoltre gira voce che nel momento in cui l'interlocutore di turno (in questo caso i Qaedisti) non possiede lo stesso subset di valori morali, risulti del tutto inutile esercitarli, in quanto, in qualche modo, ritenuti controproducenti.
I valori morali in definitiva, sono utilizzati quando si può (i disputanti li condividono) o quando non sono d'impaccio al raggiungimento di un obiettivo. In altre parole, nello scenario ipotetico in cui si combatta tra i selvaggi non è considerato im-morale diventare a nostra volta dei selvaggi o ancora: nel momento in cui un comportamento etico rendesse faticoso o addirittura impossibile raggiungere un obiettivo, meglio rinunciarvi e modificare di conseguenza il proprio comportamento. Purtroppo, la rinuncia ai propri valori è più drammatica di quanto non sembri a prima vista. Il rispetto di questi infatti, nelle rispettive esistenze, serve più a noi che agli altri. Arrestare Bin Laden, assicurargli un giusto e pubblico processo e procedere con la pena qualora fosse stato giudicato colpevole, avrebbe giovato più a noi che a lui. Avrebbe innalzato l'Occidente delle Democrazie a un livello di popolarità mai raggiunto in precedenza. Avrebbe spazzato via la convinzione che siamo Paesi, appunto, avviati verso un completo declino di valori morali, primo giudizio che infiamma le piazze arabe e musulmane. In altre parole avremmo affiancato alla potenza militare e tecnologica, quella morale, che è un'arma ben più selettiva e intelligente di tante bombe o missili.
Dopo lo scandalo dell'impiccagione di Saddam, l'esecuzione di Bin Laden (se si dimostrasse vera) è l'ennessima occasione persa dall'Occidente. E mentre i fautori della "doppia morale", moralmente alleati dei Qaedisti, già s'infiammano a dimostrare che Guantanamo è stata utile, occorre ripetere con forza, oggi più di ieri, che non siamo affatto un mondo migliore.
State bene.
martedì 3 maggio 2011
Pioggia.
Varsa appoggiò la tazza sul tavolo e vide i lampi fuori. Stava in penombra, lo preferiva. Prese i pantaloni appoggiati alla spalliera della sedia e se l'infilò, a torso nudo. Finì di allacciarsi le scarpe ed entrò in camera per prendere la camicia che aveva abbandonato da qualche parte un paio d'ore prima, mentre Irene gli aveva acchiappato i coglioni, con le dita voluttuose. Si mosse con cautela, abituò gli occhi all'oscurità e vide subito una macchia luminescente, ai piedi del letto.
Distinse il profilo del corpo di Irene sotto le lenzuola mentre si abbottonava la camicia. La donna dormiva e lui si sorprese a pensare la cosa come se fosse normale, a dispetto dell'ora, un pomeriggio appena inoltrato. Uscì dalla camera.
Varsa indossò l'impermeabile e diede un'ultima occhiata al corridoio. Pensò che se fosse dipeso da lui, non avrebbe più messo piede lì dentro, ma sapeva che non era vero e che avrebbe scelto diversamente, quando fosse stato il momento. Si chiuse la porta alle spalle e sentì il rumore secco di un tuono provenire da fuori, mentre imboccava la prima rampa di scale.
Passò di fronte alla portineria e la signora pakistana sollevò appena lo sguardo al di là della guardiola, per poi riabbassarlo sul grembo. Varsa vide che la donna sfregava dei cartoncini colorati con una moneta. E non era forse una scimmia quella che portava le dita sottili alla bocca, seduta a gambe larghe sul tavolo della donna? Guadagnò l'uscita. Osservò il cielo nero di nubi grasse gravide gonfie di pioggia. Sollevò il polso con l'orologio e dovette girarlo e rigirarlo per vedere, finalmente, il quadrante: quasi le sei del pomeriggio. Sentì con le narici l'umidore della pioggia ancor prima che sbocciasse e si mise in cammino verso l'angolo della strada, che già cadevano le prime gocce.
La città era in preda alla confusione. Le automobili s'aggroppavano le une alle altre, costrette in file pulviscolari, incastrate, vocianti. Fiumi di pedoni a differenti livelli di grigio. Motorini lucenti dovunque. Semafori e impalcature, transenne e poi maestose rotonde che parevano gorghi oceanici che tutto ingoiavano e risputavano, vorticando attorno a una colonna, un obelisco, un cavaliere. Aggrappato ai comandi dell'automobile Varsa si sentì in colpa per tutta quell'intelligenza sprecata, non al servizio dello Spirito, senza sapere bene che cosa stava dicendo.
Varsa pensò anche, attaccato al volante con i capelli per aria e gli occhiali rotondi sul naso, pensò alla gente che si chiudeva negli uffici e ci rimaneva fino a fine della giornata, per poi sciamare nelle auto, lui compreso ovviamente, sulle strade congestionate, come file d'insetti in coda verso la montagna di carne morta.
Anche gli operai, i bottegai, gli statali, gli impiegati amministrativi e poi la folla triste e indignata dei precari, fasce orarie differenti, stesso sciamare, stesso social network, magari in direzione della periferia.
Varsa odiava guidare, odiava quelle scatole di ferro che rimbalzavano, si fermavano, stridevano, acceleravano. Odiava il surplus di attenzione che quell'attività richiedeva con prepotenza, l'analisi immediata degli stimoli visivi, uditivi, meccanici.
E si rendeva conto di essere spesso un osservatore, un narratore senza scopo, senza né carta né penna, uno che semplicemente si accorge di poter intuire il destino (qualcuno disse poi: un profeta). Tempo prima Giulia, la donna con cui conviveva, gli aveva chiesto cosa lui avrebbe amato essere, nella prossima vita e Varsa aveva risposto: una cosa, un muro e Giulia aveva riso e non la smetteva più e lui non capì che cosa ci fosse da ridere. Ecco. Se c'era una cosa che lasciava Varsa stupefatto e completamente esausto era la sensazione di costrizione di quella routine oggettificante di malintesi, addirittura esistenziali, non poco importanti. Piccoli obblighi, consuetudini, pigrizie, abitudini, nei confronti di tutti, il solito armamentario. Una gabbia. Una gabbia che s'appendeva alle spalle tramite spesse cinghie di cuoio e pelle, una gabbia pesantissima che impedisce i movimenti, che costringe tutti ad essere rigidi, cupi, sotto sforzo, sotto attacco, come spruzzati dall'idrante che cancella il graffito. Metti la sveglia. Tira giù i piedi. Piscia fuori la notte e sciacqua la faccia. Versa il caffè, mandibole in movimento. I vestiti. Le parole. Gli odori. Scale, portone, macchina, ufficio.
Varsa odiava guidare, odiava quelle scatole di ferro che rimbalzavano, si fermavano, stridevano, acceleravano. Odiava il surplus di attenzione che quell'attività richiedeva con prepotenza, l'analisi immediata degli stimoli visivi, uditivi, meccanici.
E si rendeva conto di essere spesso un osservatore, un narratore senza scopo, senza né carta né penna, uno che semplicemente si accorge di poter intuire il destino (qualcuno disse poi: un profeta). Tempo prima Giulia, la donna con cui conviveva, gli aveva chiesto cosa lui avrebbe amato essere, nella prossima vita e Varsa aveva risposto: una cosa, un muro e Giulia aveva riso e non la smetteva più e lui non capì che cosa ci fosse da ridere. Ecco. Se c'era una cosa che lasciava Varsa stupefatto e completamente esausto era la sensazione di costrizione di quella routine oggettificante di malintesi, addirittura esistenziali, non poco importanti. Piccoli obblighi, consuetudini, pigrizie, abitudini, nei confronti di tutti, il solito armamentario. Una gabbia. Una gabbia che s'appendeva alle spalle tramite spesse cinghie di cuoio e pelle, una gabbia pesantissima che impedisce i movimenti, che costringe tutti ad essere rigidi, cupi, sotto sforzo, sotto attacco, come spruzzati dall'idrante che cancella il graffito. Metti la sveglia. Tira giù i piedi. Piscia fuori la notte e sciacqua la faccia. Versa il caffè, mandibole in movimento. I vestiti. Le parole. Gli odori. Scale, portone, macchina, ufficio.
Varsa ricorda quando Irene gli prese il cazzo con le labbra la prima volta, Irene la studentessa cameriera del ristorante pachistano che parlava di arte e di politica, se interrogata. La stessa Irene che prima di Varsa era stata l'amante di Giulia, e forse lo era ancora, vai a sapere e intanto il cielo si rovesciò sul parabrezza come un cataclisma orientale. Varsa abbandonò i ricordi e digrignò i denti al frastuono che regnava nell'abitacolo, agli scoppi dei lampi improvvisi, lo scrosciare della pioggia. Non si sentì a posto. Era come se avesse delle braci nello stomaco. Parcheggiò, finalmente, con i nervi scossi. Scese reggendosi il bavero dell'impermeabile, ma dopo qualche passo impacciato, si rese conto che era inutile combattere gli elementi e lasciò che l'indumento svolazzasse nel vento, prima di afflosciarsi intriso d'acqua attorno al suo corpo magro, mentre lui pensava alla scimmia della portinaia, nel caseggiato di Irene. Abbandonò il marciapiede e schivò una macchina lenta che si fermò pochi metri più avanti, ondeggiando. Varsa rimase in mezzo alla strada, sotto l'acqua, gli schizzi di pioggia sulla carrozzeria. Il conducente si affacciò veloce al finestrino e gli gridò: - Ma che sta succedendo? Si può sapere?
Varsa strizzò gli occhi e si passò una mano sulla faccia. Non lo conosceva quell'uomo. Il clacson di un'automobile lo fece sobbalzare. Era ancora fermo in mezzo alla strada. Si mosse curvo verso il marciapiede opposto, alzando la mano per scusarsi, con le scarpe che risucchiavano e sciabordavano come vecchie barche. Raggiunse il cancello e lo trovò aperto. Se lo chiuse alle spalle sotto la pioggia che ormai era come una colata calda, inesorabile. Passò di fianco alla palazzina marrone della guardiola, a passo lento. Colse il portinaio che schiacciava il naso contro il vetro appannato.
Varsa entrò nell'edificio del suo palazzo e rimase in silenzio gocciolando, respirando forte, fumante, nel mezzo dell'androne di marmo.
- Ha visto che acqua?
Il portinaio l'aveva seguito e ora chiudeva l'ombrello scuotendo la punta. Gocce a fontana e una pozza che s'allargava sotto i piedi dell'uomo, acqua dovunque, Varsa iniziò a rabbrividere.
- Ho visto, rispose.
- Lei lo sa che cosa è successo stamattina? E mi scusi se l'ho seguita.
- No. Non lo so.
Varsa si chiese (anche lui) che stava succedendo.
- Si ricorda la Signora Eliani, quella del settimo piano?
Varsa scosse la testa, poi invece il nome gli fece balenare l'immagine di una vecchia piccola, bassa, che portava sempre una veletta nera che scendeva dal cappellino. Una persona gradevole. Saluti, qualche convenevole.
- La vedova? chiese Varsa, allarmato.
- Sì, quella con i due cani. - il portinaio sorrise perchè Varsa aveva indovinato, e a lui quel sorriso parve mostruoso, un presagio.
- Lei non ci crederà - continuò l'uomo quasi sottovoce adesso - stamattina la Signora ha dato fuori di matto, saranno state le cinque del mattino. Ha iniziato a urlare come un'ossessa, come un'indemoniata. Bestemmiava, la vedova, una cosa da non credere. Fino a che...
Varsa lo guardò fisso. Non riusciva a concentrarsi, l'acqua gli colava dai capelli incollati al cranio e gli finiva negli occhi, gocciolava in terra, si sentiva pesante di acqua. Non era sicuro di voler sapere il seguito di quella storia e iniziò a scuotere la testa, pur continuando a guardare negli occhi il portinaio, sfidandolo a dire tutto quello che sapeva, indipendentemente dalle sue paure.
- ... li ha gettati fuori capisce?
- Che cosa?
- Li ha gettati fuori! Non s'immagina i danni! E quanto ci ho messo io per...
Varsa un passo verso il portinaio e siccome era molto alto di corporatura sembrò incombere sull'altro, stimolando immagini e istinti di sottomissioni e violenza.
- Che cosa ha buttato fuori? - chiese Varsa.
- I cani. Ha buttato fuori i cani dal balcone.
Varsa spalancò la bocca e rimase muto a fissare l'uomo, con i capelli incollati alla fronte, mentre il primo cane cadeva roteando dal balcone del settimo piano, sul tetto delle auto parcheggiate, in mezzo alle bestemmie della vecchia.
State bene.
domenica 24 aprile 2011
Dal balcone
Non che avesse vissuto per quel momento, questo non è vero. Tuttavia Roberto, intorno alle dieci di sera, i ragazzi ormai a letto, appoggiò il bicchiere con un fondo di whiskey e si trovò stanco. Sole e mare, camminate, letture, relazioni umane. La riparazione di una tapparella uscita dai binari, la pompa per gonfiare una ruota di bicicletta. Il sole caldo sulla pelle, l'aperitivo, l'odore della sua donna e l'immagine insostenibile della sua pelle nuda che poteva accarezzare. E più tardi una bella cena e momenti complessi, un vino strutturato, una compagnia in forma e piacevole, affettuosa e sfidante. E poi spiegazioni, moti d'affetto, discussioni mentre il treno passa sulla vicina ferrovia. Tentativi di far prevalere un punto di vista portando la forchetta alla bocca. E poi con il sole che scavalca il perimetro del mare, da quella zona dove nascono soltanto colori, la serata si spegne tra i mormorii, gli ultimi bicchieri e qualcuno che si alza. Come si fa a non essere stanchi dopo appena un decimo di queste emozioni? A casa quieta, arrivò il momento del silenzio, della vita custodita, delle persone di cui, restando sveglio, ci si prende cura come la cosa più naturale del mondo. E' allora che viene il momento del balcone. Sarebbe stupido vivere in funzione di questo ma non di meno è la conclusione perfetta di una giornata.
Roberto appoggiò il bicchiere, raggiunse l'alta sedia in vimini e afferrò una felpa azzurra, un indumento di sua figlia. In casa regnava il silenzio e Roberto sfilò accanto a sua moglie che dormiva sul divano, respirando lieve, bella come al solito.
- Siamo i forzati della sigaretta.
Roberto sentì la voce della donna arrivargli dal balcone in alto a destra. Era una vicina che conosceva, o meglio, di cui sapeva qualcosa. Viveva al piano sopra di lui, ma nella parte destra del caseggiato. Roberto li aveva incontrati più volte, ne vedeva talvolta le gambe o ne udiva le voci, quando lei con in marito si sedevano sulle sdraio nel grande balcone che dava sul mare, nella parte frontale della grande casa bianca e azzurra, il balcone ampio che pareva la vela gonfia di vento di un galeone. Era la signora che aveva avuto un tumore (glielo raccontò Serena, sua moglie?). Non ricordava il nome, naturalmente, sapeva che aveva circa sessant'anni, una persona gioviale, tarchiata, coi capelli grigi e corti, gli occhiali rotondi e la parlantina schietta di una regione del Nord. Era un po' matta, parlava ad alta voce, badava ogni tanto a un nipote, spostandolo in carrozzino, era sposata con un vigoroso signore asciuto e cortese che andava in bici e aveva i capelli bianchi, una presenza riservata, vigorosa, gentile, tutto questo all'interno, chiuso e rivettato, di un paese di mare in Liguria.
- Stasera fa freddo e siamo qui sul bancone. Continua la donna aspirando.
Roberto ebbe un moto di stizza, per la violazione della sua intimità. Fumare una sigaretta al balcone, rivolti alla montagna scura e al respiro del vento, il frastagliato profilo dell'orto a dieci metri dalla ringhiera, le due casette addormentate che fanno da sfondo, fumare quella sigaretta era un pretesto per pensare se stessi ed ora questo pretesto era soltanto segatura. Ma respinse il moto di stizza. C'era qualcosa. Qualcosa che non si poteva ridurre a un'emozione di quarta categoria.
- Signora. Buonasera. Sì, siamo i forzati della sigaretta, rispose, iniziando a farsi embrioni di domande.
- Mi son dovuta coprire, stasera fa freddo.
Roberto drizzò la schiena e si passò le mani sui fianchi: - Mi sono infilato la felpa di mia figlia, io. E a parte il fatto che è rosa, è stretta. La prima cosa che ho trovato in giro, sapevo che faceva troppo freddo. Probabilmente le sembro ridicolo.
- Se lei sapesse quante cose trovo ridicole alla mia età, non credo che si preoccuperebbe di una felpa rosa.
- Sono sollevato, rispose Roberto fumando e pensò che lui stesso era circondato, letteralmente da cose ridicole o disperate. Lui stesso, ne era certo, era un caso da manuale.
- Non conto più le volte che sono uscita qua fuori. Non mi piace fumare al chiuso, in casa. Tante volte ci sono i nipoti, non è giusto che respirino il fumo. E alla mattina si apre la finestra, per dare aria. Ma non mi piace lo stesso. E allora preferisco il vento, come stasera.
- Anche io cerco di non fumare in casa. Non ci riesco sempre. E non mi dispiace venire qui fuori. C'è un'aria molto bella. Non ce l'abbiamo spesso quest'aria, noi. Magari lei ci è abituata. Sa quando è fredda. Sa quando è calda. Per me c'è troppo vento stasera. Ma me la godo lo stesso.
- Io vengo da Trieste, figuriamoci se non conosco l'aria e il vento Lo sa che il vento peggiore qui dove siamo è il Grecale? Cioè la Bora. Spira da lì, la donna indicò un punto alla destra, una traiettoria che si perdeva tra le montagne, il traliccio all'orizzonte a lui parve di raggiungere in un baleno, attaccato a quel dito, prima il delta del fiume e poi le pianure dell'Istria, piene di gente barbuta.
- E' lui il filo conduttore che mi ha portato da là a qui. Ci ha mai pensato?
- A cosa?
Roberto tornò sul balcone, con ancora gli idiomi croati e serbi che s'arrotolavano nelle orecchie. Fece un altro tiro. Sputò il fumo piano.
- Al vento. Non lo ferma nessuno. Da Trieste alla Liguria. Perde vigore, di questo può starne certo. Ma arriva. E se non arriva io ne sento la mancanza.
- E' un'immagine molto bella, annuì Roberto e s'appoggiò alla ringhiera bianca di quel bancone stretto, con i panni che rinfrescavano nella notte, appesi ai fili.
La donna si protese un poco verso l'esterno, verso di lui. Le luci soffuse di Villa Zelda a centro metri, a ridosso della falda più ripida della montagna che aveva palme ed agavi incastrate nella roccia, quelle luci soffuse rendevano ammissibili il nero scuro della montagna e dei suoi alberi contorti.
- Ammiro molto la vostra conoscenza dei venti. Credo che sia molto affascinante (come quella di chi ripara orologi, o pesca, o smonta una bicicletta - pensò Roberto).
- Lo è. Ma noi ci siamo costretti. Voi riconoscerete, magari, le cime delle montagne, e in pianura i campanili. Noi riconosciamo i venti. Si ricorda stamattina, quando mi ha salutato che io ero alla finestra?
- Sì.
- Beh lei non si è visto, ma io l'ho guardata bene.
Roberto si girò verso la donna, pensando a cosa c'entrava questo con i venti, si protese un poco reggendo la sigaretta ormai corta tra le dita sottili, perchè la voce le arrivava piano.
- Lei sorrideva, disse quella e poi non disse più niente.
Roberto appoggiò il bicchiere, raggiunse l'alta sedia in vimini e afferrò una felpa azzurra, un indumento di sua figlia. In casa regnava il silenzio e Roberto sfilò accanto a sua moglie che dormiva sul divano, respirando lieve, bella come al solito.
- Siamo i forzati della sigaretta.
Roberto sentì la voce della donna arrivargli dal balcone in alto a destra. Era una vicina che conosceva, o meglio, di cui sapeva qualcosa. Viveva al piano sopra di lui, ma nella parte destra del caseggiato. Roberto li aveva incontrati più volte, ne vedeva talvolta le gambe o ne udiva le voci, quando lei con in marito si sedevano sulle sdraio nel grande balcone che dava sul mare, nella parte frontale della grande casa bianca e azzurra, il balcone ampio che pareva la vela gonfia di vento di un galeone. Era la signora che aveva avuto un tumore (glielo raccontò Serena, sua moglie?). Non ricordava il nome, naturalmente, sapeva che aveva circa sessant'anni, una persona gioviale, tarchiata, coi capelli grigi e corti, gli occhiali rotondi e la parlantina schietta di una regione del Nord. Era un po' matta, parlava ad alta voce, badava ogni tanto a un nipote, spostandolo in carrozzino, era sposata con un vigoroso signore asciuto e cortese che andava in bici e aveva i capelli bianchi, una presenza riservata, vigorosa, gentile, tutto questo all'interno, chiuso e rivettato, di un paese di mare in Liguria.
- Stasera fa freddo e siamo qui sul bancone. Continua la donna aspirando.
Roberto ebbe un moto di stizza, per la violazione della sua intimità. Fumare una sigaretta al balcone, rivolti alla montagna scura e al respiro del vento, il frastagliato profilo dell'orto a dieci metri dalla ringhiera, le due casette addormentate che fanno da sfondo, fumare quella sigaretta era un pretesto per pensare se stessi ed ora questo pretesto era soltanto segatura. Ma respinse il moto di stizza. C'era qualcosa. Qualcosa che non si poteva ridurre a un'emozione di quarta categoria.
- Signora. Buonasera. Sì, siamo i forzati della sigaretta, rispose, iniziando a farsi embrioni di domande.
- Mi son dovuta coprire, stasera fa freddo.
Roberto drizzò la schiena e si passò le mani sui fianchi: - Mi sono infilato la felpa di mia figlia, io. E a parte il fatto che è rosa, è stretta. La prima cosa che ho trovato in giro, sapevo che faceva troppo freddo. Probabilmente le sembro ridicolo.
- Se lei sapesse quante cose trovo ridicole alla mia età, non credo che si preoccuperebbe di una felpa rosa.
- Sono sollevato, rispose Roberto fumando e pensò che lui stesso era circondato, letteralmente da cose ridicole o disperate. Lui stesso, ne era certo, era un caso da manuale.
- Non conto più le volte che sono uscita qua fuori. Non mi piace fumare al chiuso, in casa. Tante volte ci sono i nipoti, non è giusto che respirino il fumo. E alla mattina si apre la finestra, per dare aria. Ma non mi piace lo stesso. E allora preferisco il vento, come stasera.
- Anche io cerco di non fumare in casa. Non ci riesco sempre. E non mi dispiace venire qui fuori. C'è un'aria molto bella. Non ce l'abbiamo spesso quest'aria, noi. Magari lei ci è abituata. Sa quando è fredda. Sa quando è calda. Per me c'è troppo vento stasera. Ma me la godo lo stesso.
- Io vengo da Trieste, figuriamoci se non conosco l'aria e il vento Lo sa che il vento peggiore qui dove siamo è il Grecale? Cioè la Bora. Spira da lì, la donna indicò un punto alla destra, una traiettoria che si perdeva tra le montagne, il traliccio all'orizzonte a lui parve di raggiungere in un baleno, attaccato a quel dito, prima il delta del fiume e poi le pianure dell'Istria, piene di gente barbuta.
- E' lui il filo conduttore che mi ha portato da là a qui. Ci ha mai pensato?
- A cosa?
Roberto tornò sul balcone, con ancora gli idiomi croati e serbi che s'arrotolavano nelle orecchie. Fece un altro tiro. Sputò il fumo piano.
- Al vento. Non lo ferma nessuno. Da Trieste alla Liguria. Perde vigore, di questo può starne certo. Ma arriva. E se non arriva io ne sento la mancanza.
- E' un'immagine molto bella, annuì Roberto e s'appoggiò alla ringhiera bianca di quel bancone stretto, con i panni che rinfrescavano nella notte, appesi ai fili.
La donna si protese un poco verso l'esterno, verso di lui. Le luci soffuse di Villa Zelda a centro metri, a ridosso della falda più ripida della montagna che aveva palme ed agavi incastrate nella roccia, quelle luci soffuse rendevano ammissibili il nero scuro della montagna e dei suoi alberi contorti.
- Ammiro molto la vostra conoscenza dei venti. Credo che sia molto affascinante (come quella di chi ripara orologi, o pesca, o smonta una bicicletta - pensò Roberto).
- Lo è. Ma noi ci siamo costretti. Voi riconoscerete, magari, le cime delle montagne, e in pianura i campanili. Noi riconosciamo i venti. Si ricorda stamattina, quando mi ha salutato che io ero alla finestra?
- Sì.
- Beh lei non si è visto, ma io l'ho guardata bene.
Roberto si girò verso la donna, pensando a cosa c'entrava questo con i venti, si protese un poco reggendo la sigaretta ormai corta tra le dita sottili, perchè la voce le arrivava piano.
- Lei sorrideva, disse quella e poi non disse più niente.
giovedì 21 aprile 2011
L'immanente sbircia l'esterno.
Prima era La Penna e la Spada.
Pausa, i giorni si accavallano e depositano rughe, dolori, entusiasmi.
Adesso L'immanente.
Immanente significa le storie e azioni e pensieri che stanno dentro di noi e che sono sufficienti a se stessi, senza bisogno di spiegazioni altre, di ragioni esterne, di rimandi metafisici. Sono le storie dei post, da che mondo e mondo.
Ma immanente è anche l'atto del vedere e del conoscere, sul quale si prendono posizioni che non hanno effetto alcuno, su ciò che si vede e su ciò che si conosce.
Immanente è anche la casa vuota del paradosso, quella che rimanda alla trascendenza, negandola.
Storie e pensieri, insomma.
State bene.
Pausa, i giorni si accavallano e depositano rughe, dolori, entusiasmi.
Adesso L'immanente.
Immanente significa le storie e azioni e pensieri che stanno dentro di noi e che sono sufficienti a se stessi, senza bisogno di spiegazioni altre, di ragioni esterne, di rimandi metafisici. Sono le storie dei post, da che mondo e mondo.
Ma immanente è anche l'atto del vedere e del conoscere, sul quale si prendono posizioni che non hanno effetto alcuno, su ciò che si vede e su ciò che si conosce.
Immanente è anche la casa vuota del paradosso, quella che rimanda alla trascendenza, negandola.
Storie e pensieri, insomma.
State bene.
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