lunedì 27 maggio 2013

almeno così dicono


Il cestello della lavastoviglie faceva circa ottocento giri al minuto. Ecco la ragione di tanto fracasso. Un po' più di tredici giri al secondo, ve lo immaginate? Provate a impugnare un semplice spago, all'estremità del quale avrete legato un peso, tipo l'astuccio della scuola. Ora provate a farlo girare tredici volte in un secondo.
- Sonia!
E' evidente che il corpo umano ha dei limiti, voglio dire, non è un motore, nessuno pompa dentro di noi elettricità e non abbiamo una cinghia di trasmissione, ma solo muscoli, tendini, ossa e sangue, niente a che fare con una cinghia, le ruote dentate e via dicendo. E poi abbiamo un cervello che comanda il tutto, certamente. Un cervello molto più intelligente del circuito stampato della lavatrice. Però non riusciamo certo a far girare l'astuccio a quella velocità.
- Sonia si può sapere perché non mi rispondi? - chiede la donna con uno sguardo tra l'arrabbiato e lo stupito, appena dentro la camera.
Sonia si gira e lascia cadere la penna. La mamma.
- Che c'è?
- C'è che ti sto chiamando da mezz'ora, dobbiamo uscire adesso se vogliamo fare in tempo.
- Arrivo.
- E abbassa la musica, si sente in tutta la casa!
Chiude il libro con dentro il quaderno. Raggruppa biro e matite. Inciampa con  lo sguardo nel poster dei Green Day.

Sonia dentro il letto, si passa le mani sul torace, sotto il pijama, in cerca di un indizio di seno, nemmeno lei sapendo perché. Sente qualcosa di duro, che fa resistenza, come un sasso piatto di fiume che spinge tra le ossa e la pelle bianca di efelidi.
- Dove siete...

La mattina esce di casa e si avvia  alla fermata, reggendo lo zaino sulle spalle. Piove ed è tutta chiusa in un sacco impermeabile rosso, che odia con tutte le sue forze. Porta un ombrello con le orecchie da peluche e per la prima volta le capita di  osservarlo come se non fosse suo, come se fosse un oggetto misterioso, incomprensibile: un orso sulla testa, come se io fossi una bambina. Sul bus si accomoda nei sedili in fondo, lato finestrino, lo zaino tra i piedi e l'odore dei vestiti bagnati, della pelle umida. Regola il volume e nelle cuffie si sente il raggae di Derrick Harriott. Le gocce si allungano sul vetro e il bus traballa e le persone oscillano appese ai pali di zinco, come tanti impiccati. Hasha non salirà sul bus come tutte le mattine, all'altezza della Piazza e non la raggiungerà sorridendo, con il fazzoletto sui capelli. Ha la febbre e non ci sarà a scuola. Ha sempre la febbre Hasha ultimamente. Sta succedendo qualcosa a casa di Hasha ma  Sonia non capisce cosa, forse nemmeno Hasha lo sa di preciso. Non gliene parla. La musica finisce e il frastuono delle voci e dei rumori si affaccia alla sua coscienza.
- Sai, credo che agli uomini non importi poi molto di quello che hai fatto prima.
- Prima di che?
- Prima di stare con loro!
- Stai scherzando? Certo che gl'importa!
- Lorenzo…
- Lorenzo è un caso a parte, non puoi ricondurre l'universo maschile a Lorenzo.
- Ti dico che non gliene frega un bel niente.
Suonerie che vibrano, che suonano. Voci.
Quando scende dall'autobus s'incammina lungo la pensilina, per raggiungere le strisce e a un certo punto, mentre cammina, la coglie una vertigine sottile, che le prende lo stomaco e le viene in mente il Natale, ma non quello appena trascorso,  un Natale passato,  in cui ricordava che era stata molto bene.  Si stringe tra le braccia, mentre cammina, cercando d'inseguire quella sensazione di languore, cercando di costruire qualche immagine della memoria, invano.  E poi torna insieme agli altri, insieme alle file di ragazzini colorati che si dirigono verso l'edificio, come tanti rivoli che assecondano un dislivello e si gettano nella pozza. Una donna grida qualcosa, distante. Sonia guarda il volto di un uomo dietro un vetro appannato, in una vettura, un volto rigido, gonfio, vecchio.
- Entriamo?
- Haisha! Stai bene?
- Sì. Dai che piove.
Il padre di Anton passa loro a fianco, con l'impermeabile che svolazza e gli occhiali bagnati, saluta le ragazzine a cenni e parla al cellulare, è solo una roba marketing, fatta, male, da cinque cretini.
- Credi che a Natale ci spunta il seno?
- Ma che stai dicendo. Sbrigati! Mi si bagna tutto il fazzoletto.
- Sono sicura che hai quello di ricambio.
- Certo che ho quello di ricambio.
- Sempre dello stesso colore di questo.  
- Cambiare fazzoletto troppo spesso significa essere vanitose e a me non piace esserlo. Usare lo stesso colore è meno vanitoso, almeno così dicono.

domenica 12 febbraio 2012

L'albero della pioggia.

- Questa cosa non è mai successa.
- Quale cosa?
- Santiddio Mario, come quale cosa?
- Ti riferisci...
- Sì mi riferisco.
- Va bene. Non è mai successo niente allora. Giusto?
Silenzio. Mario passò il peso da una gamba all'altra. Con la testa pensò alle ultime due settimane. Matematica. La gita scolastica. La gonna di Viola che saliva e lui che s'accomodava tra le gambe magre. Il piccolo strappo del cuore. Sentì rumore di piatti in cucina.
- Mario.
- Dimmi. Scusa. Ero distratto.
- Quindi come facciamo.
- Come facciamo... a fare... che cosa, esattamente?
- Da domani dico, come facciamo da domani!
- Domani... niente. Domani facciamo che non è successo niente. No?
- Ma dimmi almeno se ti dispiace, dimmi qualcosa...
- Stai piangendo?
- No... cristo no! non sto piangendo! Mario io non so come fare con te, lo capisci?
Mario staccò il cellulare dall'orecchio e se lo portò in grembo. Lo guardò. Lo schermo nero ridusse l'intensità della luce. Lentamente. Viola non la sentiva più. Sentiva solo l'acuto della sua voce. Con il polpastrello toccò l'area rossa e il cellulare si spense. Lo ripose sulla stretta scrivania. Girò lo sguardo e vide il fratello che dormiva sul letto, con un braccio abbandonato che penzolava. Come morto. Tra poco il padre avrebbe chiamato per la cena.

La mattina dopo si svegliò che aveva gli occhi tutti incollati e la bocca impastata. Aveva il torcicollo. Spense la sveglia.  Suo fratello era già uscito. Anche suo padre. Come sempre. Si trascinò in bagno e poi in cucina. Premette il pulsante della macchina del caffè, che iniziò a ronzare e sobbalzare. Alzò gli occhi alla finestra: fuori pioveva. Tornò in camera e frugò nel primo cassetto. Tirò fuori un mozzicone. Lo accese. La marijuana lo fece sentire subito meglio, il male al collo sparì, come la nausea.  Ma mentre tornava verso la cucina si sentì malato e i sensi di colpa gli morsero la carne e gli parve di essere come l'ammutinato frustato all'albero maestro. Scosse la testa per scacciare tutto e non pensare a niente. Tornò in cucina e ingoiò il caffè. Diede un'altra boccata dal mozzicone, poi lo spense nel lavello, dove ripose la tazzina del caffè. Indossò il giaccone e prese lo zaino con i libri. Controllò di avere il cellulare e si chiuse la porta di casa alle spalle.

Sull'autobus pieno trovò un angolo attaccato al finestrino appannato, ma presto si trovò schiacciato dai passeggeri. Fece un mezzo sorriso a un paio di compagni di scuola che erano sdraiati sui sedili e che ridevano con gli auricolari nelle orecchie.  Quei due salivano molto prima, venivano da fuori. L'aria era calda e viziata ma non spiacevole, non per lui. Si addormentò anche qualche secondo, o almeno così gli parve. Scese alla fermata che erano le otto. S'incamminò sotto l'acqua. Dietro di lui qualche altro studente, sullo stesso marciapiede o su quello di fronte, delle figure curve, dei profili neri di pioggia. Davanti a lui altri ancora. Si chiese che materie avesse e che cosa avrebbe dovuto presentare, ma non seppe darsi una risposta. Si fermò davanti al portone della scuola e tirò fuori il pacchetto di sigarette. Se ne accese una riparandosi sotto il cornicione sporgente prima del portone. Lasciò andare una boccata e poi si accorse di Viola. La ragazza si fermò di fronte a lui e lasciò andare lo zaino in terra, in mezzo al fango. Aveva gli occhi rossi e i capelli appiccicati alla fronte.
- Viola...
La ragazza si tirò sù la manica del giubbotto, scoprendo l'avambraccio. La vide che frugava nella tasca dei pantaloni. Viola tirò fuori una cosa piccola che sapeva di metallo e con quella passò due o tre volte sul polso e il sangue iniziò a zampillare a fiotti sottili.
- Vediamo se adesso fai finta di niente figlio di puttana.
Mario rimase a fissare il polso bianco della ragazza e poi si guardò il petto pieno di sangue e poi vide il rivolo che spariva lungo le dita di lei, sul cemento, dilavato, nella piazzola lurida dell'albero di fronte.

mercoledì 18 maggio 2011

sabato 14 maggio 2011

Confessioni

"E quando mi fu strappata dal fianco la donna con la quale ero solito andare a letto, dovettero tagliare via il pezzo di cuore che le era attaccato, e la ferita sanguinò molto. Se ne tornò in Africa, facendo voto a te di non conoscere mai altro uomo, e lasciando con me il figlio naturale che da lei avevo avuto."

Agostino, Confessioni, traduzione (e commento):  Roberta De Monticelli.